Proteste a Venezia: L’uomo può essere colpevole, ma il genio può essere “innocente”?

“Spegnete i riflettori sugli stupratori”. È stato questo il grido delle donne e degli uomini che ieri sera hanno protestato a Venezia, di fronte al red carpet del Palazzo del cinema. A torso nudo, con le mani sollevate in alto, sporche di rosso, lo stesso colore delle impronte lasciate sui loro corpi che richiamano gli abusi. Sono stati poi allontanati dalla sicurezza.

Il motivo della protesta a Venezia

“Siamo attiviste provenienti da tutto il Veneto, tra cui Centro sociale Morion di Venezia e Non una di meno – hanno spiegato – per protestare la scelta, richiamare l’attenzione sulla presenza sul red carpet di persone che hanno 17 capi di accusa in un Paese dove ci si scandalizza del fatto che 7 ragazzi in branco stuprano una minorenne, invece fa parte della cultura dello stupro”.

In quel preciso momento sfilava il cast di Coup de chance, in particolare passava il regista Woody Allen con la moglie Soon-Yi Previn.

E non era un caso. Proprio il celebre regista è tra quelli per cui le attiviste hanno deciso di protestare. Nel volantino che hanno diffuso, infatti, sottolineano la presenza al festival di tre uomini, che sono stati coinvolti in procedimenti penali per casi di abusi e violenze sessuali: Roman Polanski, Woody Allen e Luc Besson. Il primo, alla fine, non è potuto esserci alla presentazione del suo ultimo lungometraggio.

Il volantino e le critiche al direttore Barbera

“Quest’anno la Biennale ha scelto di dare spazio a registi coinvolti in vicende di violenze sessuali contro donne, anche minorenni – scrivono le attiviste e gli attivisti, citando anche le polemiche scoppiate mesi fa intorno alle parole di Luca Barbareschi – Le scuse, accampate dal direttore della Mostra Alberto Barbera, seguono il vecchio copione della distinzione tra uomo e l’artista, il cui genio non è mai giudicabile poiché superiore e libero da responsabilità terrene”.

“Le scuse” alle quali si fa riferimento nel volantino, altro non sono che le risposte date dal direttore Barbera, in merito alla presenza di Allen, Polanski e Besson, in un’intervista al The Guardian pochi giorni prima dell’inizio del festival, quando le polemiche erano già nell’aria.

Su Polanski, che a fine anni ’70 è stato condannato, dietro patteggiamento e ammissione, per aver approfittato di una tredicenne e che negli ultimi anni è stato accusato di violenza sessuale da cinque donne (accuse che lui allontana), Barbera avrebbe detto:

“Polanski è uno degli ultimi grandi maestri del cinema europeo. Ha commesso errori enormi 50 anni fa. Ha riconosciuto di essere colpevole. Ha chiesto di essere perdonato dalla vittima e la vittima ha dato il suo perdono. Non sono un giudice a cui viene chiesto di esprimere un giudizio sul cattivo comportamento di qualcuno. Sono un critico cinematografico, il mio lavoro è giudicare la qualità dei suoi film. Ma ovviamente è una situazione molto difficile”.

“Sono abbastanza sicuro che tra qualche decennio tutti avranno dimenticato la storia dello stupro di Polanski, ma continueranno ad ammirare i suoi film”.

Barbera, a quanto pare, riesce a separare l’uomo, e colpe annesse, dall’artista, salvando e continuando a idolatrare il secondo. E se lo fa con Polanski, che ha alle spalle una condanna, gli riesce più naturale farlo con gli altri due, sollevati dalle accuse.

“Per quale motivo dovremmo vietare un film di (in questo caso Allen e Besson) quando non sono colpevoli di fronte alla giustizia? – avrebbe risposto – Perché dovremmo essere più severi nei loro confronti? Dobbiamo avere fiducia nel sistema giudiziario”.

“La violenza di genere è ovunque”

Ma per chi ha protestato ieri a Venezia, queste parole suonano contraddittorie con quanto avviene al di fuori dal bel mondo luccicante dello star system e quindi del festival.

“Non fareste mai sfilare sul red carpet chi ha agito, solo per citare gli ultimi casi, gli stupri di Palermo, Caivano e Milano – si legge nel volantino – La Biennale sceglie di non interessarsi alla questione, ma noi sappiamo che lo spazio per parlare di violenza di genere è ovunque, perché ovunque accade“.

Un terreno, questo, per certi versi scivoloso. La cancel culture, è vero, rischia di condannare (quindi rovinare) qualcuno prima ancora che lo faccia un giudice o addirittura al contrario di un giudice, quindi ingiustamente. Kevin Spacey ne sa qualcosa.

Ma se, diversamente, le accuse vengono accertate e seguite da una condanna?

Se nel mondo “reale” ci si dice, nel corso dei vari dibattiti scaturiti dagli ultimi episodi di cronaca, che l’uomo violento, stupratore, andrebbe isolato socialmente, così da identificare il vero colpevole (che ricordiamo non è mai la vittima) e nella speranza di renderlo consapevole delle sue colpe.

Perché nel mondo del cinema, o dell’arte più in generale, dovrebbe essere diverso?

Dobbiamo credere che anche in questo caso il lavoro, la popolarità, il ruolo siano delle discriminanti? Che possano essere delle attenuanti a livello sociale? Che un artista abbia quindi più possibilità rispetto a un uomo comune, di buttarsi alle spalle le colpe?

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