Arriva a Roma con Helmut Newton legacy l’essenza del glamour, fra alta moda ed empowerment femminile

Tutto è cominciato da un trench di plastica che, come una sorprendente radiografia, lasciava ben poco all’immaginazione. Helmut Newton (1920-2004) lo ha fotografato nel 1973 sul corpo nudo di una modella. All’epoca la nudità nelle foto di moda era un tabù ma Newton, il fotografo che ha erotizzato come nessun altro il corpo delle donne conferendo loro fierezza, dignità e quindi sovrana bellezza, già all’epoca era allergico al benpensantismo e agli stereotipi borghesi. Non per nulla fu Hugh Heffner, editore di ‘Playboy’ fra i primi a intuire il genio di questo spregiudicato e irriverente mago dell’obbiettivo. I tempi del resto erano ormai maturi per la svolta pansessualista che la fotografia del grande e beffardo berlinese ha segnato non solo nella moda ma nella storia dei costumi sociali e della cultura popolare di massa nella sua interezza, fino a plasmare un immaginario che oggi nella moda ha una vastissima eco.

Basta vedere l’ultima sfilata inverno 2024 di Dolce & Gabbana, un omaggio eloquente a Catherine Deneuve e al film di Luis Bunuel ‘Bella di giorno’ dal quale Newton ha spesso tratto ispirazione nei suoi scatti di moda. E nella stessa sfilata non a caso proprio la coppia creativa italiana ha mandato in pedana quel trench di plastica trasparente che riprende l’iconografia del nude look lanciato alla fine degli anni’60 da un sarto, Yves Saint Laurent, che di Newton sarebbe di lì a poco divenuto un entusiasta e devoto ammiratore fino ad affidare a lui fin dal 1975 il compito di ‘raccontare’ il suo mondo di donne voluttuose, indipendenti e dominanti come imperiose valchirie. Sì perché, in barba alle femministe storiche come Susan Sontag, che spesso hanno accusato il grande fotografo tedesco di ‘misoginia’, Newton le donne non solo le amava ma le rispettava profondamente: prova ne é non solo la posizione che le donne assumono nelle foto di Newton, assertive, e sempre sovraordinate al maschio patriarcale, ridotto quasi a oggetto sessuale, ma anche il fatto che la sua musa vera, oltre alla madre che nel 1938 lo salvò dalla deportazione nazista, e alla sua insegnante Yva, sventurata vittima dell’olocausto, è stata la moglie Alice Springs, pseudonimo di June Newton, anch’ella dedita alla fotografia in veste professionale: non solo lo ha ispirato ma compare spesso in molti suoi scatti.

Modelle famose come Nadja Auermann, Monica Bellucci, Claudia Schiffer e Violeta Sanchez hanno riconosciuto il debito che hanno con il fotografo per averle valorizzate come nessun altro. «Ogni modella sognava di posare per Helmut. E io ho avuto il privilegio di lavorare con lui vent’anni», ha dichiarato la Sanchez. Ora ‘Helmut Newton legacy’ una bella mostra itinerante, voluta dalla Fondazione Helmut Newton in tandem con Zetema, Marsilio Arte, Rai e Vogue, aperta fino a marzo 2024 alla Galleria dell’Ara Pacis, illustra il determinante contributo di Newton all’iconografia contemporanea non solo in termini di arte e nudo ovviamente ma anche e soprattutto in termini di moda. L’esposizione, che nei giorni scorsi è stata presentata da Matthias Harder, presidente della Newton Foundation, e da Denis Curti, curatore della mostra, verte anche sul raccordo importante fra Newton e l’Italia: spesso di casa a Bordighera e sul Lago di Como dove amava soggiornare nelle sue picaresche peregrinazioni, questo fotografo che non a caso è stato poi ribattezzato ‘reporter del desiderio’ ha collaborato spesso con il magazine ‘Linea Italiana’ che agli albori dell’Italian Style ha narrato la moda tricolore con un occhio speciale. E non pochi sono stati gli stilisti e i marchi fashion del bel paese che si sono avvalsi dell’obbiettivo di Helmut Newton per corroborare i propri messaggi: in primis Gianni Versace, Prada, Mario Valentino e Blumarine. Narrazione è l’altra parola chiave che aiuta a decifrare l’universo newtoniano: “E’ stato il primo a introdurre l’elemento dello storytelling nella foto di moda: aveva illustri rivali come Richard Avedon e William Klein che come lui si riallacciavano al linguaggio della street photography, eppure subito è emersa la sua impronta originale e inconfondibile tanto da giustificare l’espressione ‘versione Newton’ nella fashion photography: nei suoi scatti ha saputo dimostrare come la fotografia sia una vera forma d’arte nella misura in cui non si limita a riprodurre la realtà ma in verità la reinterpreta fino a proporre un terzo occhio sul mondo esterno, un occhio ironico e soi disant voyeur che spesso nel caso di Newton, attingeva alla cronaca nera ma senza derive morbose o truculente”, ha detto Curti in occasione della vernice.

L’esposizione itinerante che ora fa tappa nella capitale ospita oltre 250 scatti divisi in varie sezioni di cui circa 80 inediti e mai esposti in precedenza. Come altri coevi, Newton era affascinato dalla narrative art e dallo stratagemma del fotogramma bloccato. Il fotografo articolava storie che lasciavano lo spettatore in sospeso introducendo l’elemento del dubbio e della sorpresa sull’epilogo delle storie, come in un film di Hitchcock: un’idea che rileviamo anche in tante foto di Guy Bourdin, altro illustre protagonista degli shooting di moda di Vogue Paris negli anni Settanta, l’epoca in cui la fama e la reputazione di Newton raggiunsero le vette più elevate fino a incoraggiarlo a esporre le sue opere in gallerie d’arte. Rispetto a Bourdin, però “Newton non indulge mai al macabro, bensì offre una prospettiva nuova e originalissima sulla moda che in lui appare filtrata dal realismo dei paparazzi, da Solomon e De Brassai ma anche da un nuovo concetto di glamour legato in parte a studi psicanalitici”, ha spiegato Harder. Newton era daltonico: dettaglio non irrilevante per spiegare il motivo per il quale privilegiava il bianco e nero rispetto al colore. Lo stesso Curti ha poi sottolineato la centralità delle polaroid, accanto al banco ottico, nel processo creativo e nella tecnica artistica di Newton: polaroid per le quali era giustamente apprezzato da Pierre Bergé e Tom Ford, altro grandissimo ammiratore del fotografo, in seguito emulato da Mario Testino ma soprattutto da Steven Klein e Steven Meisel che nelle loro foto di moda hanno citato in modo quasi pedissequo i ‘topoi’ dell’universo newtoniano. Un altro motivo per il quale Newton spesso visitava Roma era legato all’amore per il cinema: estimatore della settima arte, Newton ha spesso tratto spunto non solo da Alfred Hitchcock ma anche da François Truffaut, Federico Fellini, Man Ray e Luis Bunuel e forse anche da Lubitsch, Murnau e dal cinema tedesco degli anni’20 e’30 che portò alla ribalta l’icona Marlene Dietrich.

“Non possiamo sottovalutare l’importanza degli anni berlinesi nella formazione della poetica newtoniana”, ha sottolineato non a caso Harder. Anni di grande libertà espressiva e di sfrenata euforia edonistica poco prima dell’avvento del nazismo: in questo senso il mondo del fotografo affonda sempre le radici nello spirito tedesco, anche e forse più di altri illustri colleghi connazionali come Erwin Blumenfeld, Chris Von Wangenheim, Juergen Teller e Peter Lindbergh. Dalla luce velata scelta per molti ritratti fino al casting e ai suoi stessi soggetti ricorrenti: donne dalla pelle quasi diafana, bionde, ubertose e assolutamente uniche come Hanna Schygulla, attrice di Fassbinder e Ferreri. In tutto l’arco della sua produzione Newton ha saputo catturare i riflessi dell’edonismo di Weimar sul materialismo afrodisiaco degli anni Ottanta: in un certo senso, come dimostrano vari stupendi scatti del fotografo in mostra, realizzati prevalentemente fra le piscine e le sontuose dimore dei paperoni di Montecarlo, Newton ha saputo fotografare il coté oscuro e lascivo dell’alta borghesia internazionale, a cui, prima di fuggire dalla Germania, di fatto apparteneva. Notevole per la ricchezza di spunti di discussione e di studio che propone, questa exhibition da non perdere in realtà mette in rilievo un aspetto poco esplorato della creatività del fotografo berlinese: l’influsso dell’arte visiva sull’immaginario del grande artista. Da Goya (Maya desnuda) a Velasquez (Las Meninas) fino a Jheronimus Bosch (il giardino delle delizie) e Antonio Canova (la venere vincitrice) molti sono i grandi maestri dell’arte che hanno lasciato il segno nella mente di Newton. La mostra porta chi scrive a interrogarsi sugli spazi di libertà di cui un genio così poco incline ai condizionamenti morali e sessuali, avrebbe potuto godere ai giorni nostri: il politically correct gli faceva orrore. «Il termine corretto evoca per me la polizia del pensiero e i regimi fascisti» amava ripetere: nulla di più attuale. Per tutte le foto delle opere di Newton si ringrazia @Helmut Newton Foundation e per le foto di ambiance e allestimento intro e Catherine Deneuve grazie a Monkeys Video Lab.


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